Il 1 settembre 2016, per la prima volta dall’introduzione della moneta unica in Europa, un giornale tedesco ha parlato apertamente della fine dell’euro e del ritorno alle monete nazionali nel Vecchio Continente. Si tratta del Frankfurter Allgemeine Zeitung, che ha riportato un durissimo attacco all’Unione Europea: “L'attuale crisi economica in Europa, quella dei rifugiati, quella del pericolo di attentati di matrice islamica, il salvataggio dell'euro e le guerre vicine preoccupano i cittadini ed offuscano l'immagine dell'Unione Europea. Quel che è certo – scrive l’autorevole quotidiano tedesco - è che la spesa sociale, finanziaria ed istituzionale dovute al salvataggio dell'euro determineranno il prossimo decennio. L'idea di tornare alle singole monete nazionali, che tanto scalda alcuni, potrebbe portare allo sfaldamento dell'Europa, anche se non ci sono prove in proposito". Nel contempo, anche i toni utilizzati dal Sueddeutsche Zeitung sono forti, e mettono l’accento sulla problematica della disoccupazione giovanile in Europa: “Sono milioni i cittadini europei sotto i 25 anni privi di un impiego. Questo grave problema di natura socio-economico rappresenta una ferita dell'Europa. Nel Vecchio Continente la lotta contro la disoccupazione giovanile sta procedendo a rilento. Mentre in Germania la percentuale dei giovani disoccupati è del 7,2%, il Sud dell'Europa soffre tassi decisamente più alti, a partire dal 50% della Grecia, seguita da Spagna ed Italia. Secondo i dati di Eurostat, nel mese di luglio erano 4,2 milioni i giovani disoccupati all'interno dell'Unione". Non può passare inosservato che non si tratta di voci critiche che arrivano da una testata di un partito populista, bensì dalla stampa tedesca considerata vicina alla Cancelliera Merkel. Certo, l’esito del referendum britannico sulla Brexit ha sancito l’inizio di una nuova epoca, in cui è orami chiaro a tutti che in Europa la strada è a doppio senso: non vi è solo l’entrata, bensì anche l’uscita. Per il Regno Unito si tratta di una separazione che impiegherà alcuni anni, implicando alcuni ambiti decisionali rilevanti, tra i quali la libera circolazione di persone e merci. Si tratterà però di un divorzio relativo ad un matrimonio mai consumato fino in fondo, in quanto Londra fa parte di quei Paesi che, pur aderendo all’Unione Europea, non ha mai rinunciato alla sovranità monetaria, mantenendo la sterlina ed il potere di signoraggio alla Bank of England. Come si può osservare dalla cartina sottostante, non è una differenza da poco rispetto invece alle diciannove Nazioni, tra cui anche l’Italia, che fanno parte dell’Eurozona: si tratta di 340 milioni di cittadini, i cui governi hanno rinunciato alla propria valuta e alla sovranità monetaria, adottando l’euro e deputando l’esercizio della politica monetaria alla Banca Centrale Europea, presieduta da Mario Draghi e con sede a Francoforte.
Si tratta però di comprendere con chiarezza se, alla luce delle crescenti difficoltà che l’Europa sta attraversando, il progetto di integrazione monetaria possa essere sostenuto oppure se debba essere abbandonato e, nel caso, con quali modalità. Affrontare con serietà tale tematica è non solo utile, bensì necessario per tutti i cittadini europei, in quanto solo attraverso una più accurata conoscenza e consapevolezza, sarà possibile assumere le decisioni finanziarie più corrette all’interno di un processo che rappresenta una delle potenziali discontinuità economiche di maggiore rilevanza sistemica. In questa disamina, per esaminare il tema in questione, procederemo attraverso i seguenti punti:
Essa evidenzia l’evoluzione del debito pubblico, privato ed estero nei Paesi di Eurolandia negli otto anni che hanno preceduto la crisi (1999-2007): si nota, che in numerosi casi a fronte di una riduzione del debito pubblico vi è stato un incremento del debito privato ed estero. Non appena la crisi è sopraggiunta, al fine di preservare il sistema da un shock, alcuni Stati si sono sobbarcati i debiti privati, alimentando il debito pubblico stesso. Emblematico è il caso dell’Irlanda: Dublino, per evitare le “code davanti agli sportelli bancari” e quindi il default dell’intero sistema creditizio, si è caricata dei debiti degli istituti di credito (debito privato), ponendo in tale modo la premessa per l’esplosione del debito pubblico e per la sua insostenibilità (l’Irlanda è stato infatti l’unico Paese non del sud Europa ad attivare la richiesta del piano di salvataggio con la cosiddetta Troika – BCE, FMI e ESM). Ciò significa che numerose crisi hanno origine nell’eccesso di debito privato ed estero che si ripercuote successivamente sul debito pubblico. Si noti che l’unico Paese in cui durante tali otto anni il debito privato e quello estero sono diminuiti è la Germania.
L’osservazione empirica dimostra però che la grande maggioranza dei tentativi messi in atto dai vari Paesi di adottare delle politiche di cambio rigido sono fallite; citiamo qui solo alcuni esempi, tra i più recenti:
I motivi del fallimento di tali esperienze sono da ricercarsi nella rigidità del tasso di cambio, che risulta una variabile fondamentale (valvola di sfogo) del riequilibrio tra i differenti fondamentali economici di due Paesi diversi. Se, ad esempio, una Nazione importa eccessivamente da un’altra è del tutto naturale che il suo tasso di cambio si deprezzi rispetto alla valuta del Paese più forte, rendendo in tale modo i beni e servizi dell’altra Nazione più cari (considerando l’apprezzamento del cambio) ed i propri più economici (considerando il deprezzamento del cambio) in termini di rapporti relativi (cioè tra i due Paesi considerati). Tale movimento sui cambi tenderà nel tempo a riequilibrare le bilance commerciali dei due Paesi, riportandoli ad una condizione di tendenziale equilibrio. Le evidenze sopra citate sono di ausilio all’introduzione della teoria dell’Optimum Currency Area (OCA). Si tratta della cosiddetta Area Valutaria Ottimale e cioè degli studi effettuati, nel corso dei decenni da numerosi economisti, riguardo alla possibilità di Paesi differenti di adottare un’unica valuta. Affinché tale unione valutaria sia un’OCA, che cioè il suo funzionamento risulti ottimale o che comunque possa essere sostenuta, è necessario che vengano implementate alcune decisioni di politica economica e fiscale, tra cui vale la pena indicare le più rilevanti, (unitamente all’economista che ne ha definito la validità e all’anno di pubblicazione dello studio):
a) Mobilità dei fattori di produzione (Mundell 1961): è l’insieme delle regole che devono consentire ai lavoratori dei Paesi aderenti alla moneta unica, ma in difficoltà economica (recessione – deficit), di trovare rapidamente impiego nei Paesi in surplus;
b) Flessibilità dei salari (Friedman 1953): è l’adeguamento economico reso necessario, in assenza della possibilità di un aggiustamento sui cambi, per garantire al Paese in deficit il recupero di produttività e competitività per il suo rilancio economico;
c) Maggiore diversificazione produttiva (Kenen 1969):
d) Maggiore apertura al commercio estero: ciò in quanto Paesi più aperti al commercio estero traggono minor beneficio da una svalutazione del proprio tasso di cambio in quanto, in caso di deprezzamento della propria moneta, i prezzi dei beni importati necessari (vedi energia) aumentano, trasferendosi sui prezzi interni tendendo a vanificare i vantaggi della svalutazione stessa;
e) Convergenza dei tassi di inflazione (Fleming 1971): in assenza di tale convergenza i Paesi con minore inflazione saranno in grado di offrire beni e servizi a prezzi costantemente più convenienti. Ciò comporterebbe un aumento del divario tra i Paesi (quelli con minore inflazione si troverebbero in costante surplus commerciale e quelli con maggiore inflazione in costante deficit commerciale);
f) Integrazione fiscale (Kenen 1969): in caso di squilibrio economico tra i Paesi aderenti alla valuta comune è necessario che le Istituzioni che governano il sistema economico e politico siano progettate per ovviare a tali problemi, prevedendo un sistema efficiente di trasferimenti di risorse dalle zone in espansione a quelle in recessione.
E’ interessante notare che l’assenza degli elementi sopra enunciati non è neutra, bensì negativa rispetto al progetto di OCA: essa cioè non blocca lo sviluppo del progetto, bensì lo rende di fatto controproducente, dannoso in quanto tale.
Essi vengono regolati dall’equazione di Winnie Godley che indica l’equivalenza a zero della somma algebrica dei saldi dei tre settori e cioè:
SALDO PUBBLICO + SALDO PRIVATO + SALDO ESTERO = 0
Ogni saldo è rappresentato, a sua volta, dal delta tra due singoli elementi, come sotto indicato
(SPESA-TASSE) + (RISPARMI-INVESTIMENTI) + (EXPORT-IMPORT) = 0
L’equazione di Goldey indica cioè che, se ad esempio uno dei saldi presenta un forte andamento negativo (il saldo estero) esso dovrà essere compensato dagli altri due. Al fine di una verifica pratica di quanto affermato, analizziamo i saldi settoriali italiani dal 1999 ad oggi grazie al grafico sottostante.
Si tenga conto che il saldo estero positivo, nella figura, indica che l’estero è un risparmiatore netto, cioè sta prestando denaro all’Italia. Nel 2000 i tra saldi settoriali erano tutti e tre vicini allo zero: conti con l’estero in equilibrio, deficit pubblico esiguo e settore provato in moderato surplus. Dal 2001 al 2003 il deficit pubblico aumenta; dato che il saldo estero rimane costante, il surplus privato aumenta più o meno della stessa misura del deficit pubblico (i soldi che lo Stato chiede vengono finanziati dai privati). Cos’era accaduto? Negli Stati Uniti era scoppiata la bolla della new economy, con conseguente rallentamento della crescita che rischiava di trascinare con sé le altre economie. Il governo italiano reagì con uno stimolo fiscale. Dal 2004 però la situazione muta: il saldo finanziario con l’estero decolla, cioè il Paese inizia ad importare capitali dall’estero. Chi si sta indebitando con l’estero? L’immagine è chiara: è il settore privato, il cui saldo sprofonda specularmente rispetto al saldo estero, mentre il settore pubblico si riporta in attivo. In altri termini sono le difficoltà economiche del settore privato a causare l’aumento dell’indebitamento estero. Nel 2008 scoppia la crisi con il fallimento di Lehman Brothers; dopo il primo shock, che cosa accade? Che il governo italiano chiude il cordone della borsa bloccando il deficit, in ottemperanza alle regole del fiscal compact; ciò comporta che a fronte di un riequilibrio del saldo estero, un forte risparmio viene necessariamente operato dal settore privato. Allargando il campo geografico (Eurozona) e concentrando il punto di osservazione (saldi partite correnti) si possono osservare dei mutamenti significativi dopo l’introduzione dell’euro, come indicato dalla figura sottostante, che descrive i saldi delle partite correnti dei Paesi dell’Eurozona.
Nel 1999 i Paesi di Eurolandia presentavano saldi molto vicini tra loro, nell’intorno dello zero ma, dopo il 2000 la situazione muta radicalmente: i saldi si divaricano ampiamente con un Paese in forte surplus – la Germania – e molti Paesi in deficit, anche significativo, tra cui Spagna ed Italia. In primo luogo è necessario quindi correggere un’idea tanto errata quanto ben radicata: l’incremento del surplus commerciale tedesco che si verifica dall’inizio del nuovo secolo è soprattutto verso i Paesi Emergenti, producendo un effetto traino positivo anche per le esportazioni degli altri Paesi dell’Eurozona. La figura e la tabella sottostanti smentiscono categoricamente tale assunto.
Il grafico descrive il dato del saldo commerciale tedesco disaggregato, distinguendo i Paesi Euro da quelli extra-Euro; l’evidenza è lampante: la Germania esporta costantemente di più verso i Paesi di Eurolandia. La tabella è una conferma emblematica: in essa infatti sono riportati i dati di variazione del saldo commerciale tedesco nei primi anni post introduzione della moneta unica, distinti per Area geografica. Il delta positivo complessivo nei sette anni (239 miliardi euro) è dovuto in larga parte (157 miliardi euro) dalla crescita verso l’Europa (di cui quasi la metà verso i Paesi del sud Europa), mentre nei confronti dei BRIC, Berlino registra addirittura un leggero decremento (-5 miliardi euro). Come si spiega tutto questo? Normalmente si pensa subito al fatto che la produzione industriale tedesca è diventata di maggior qualità e di maggior competitività rispetto agli altri Paesi di Eurolandia; in realtà che la struttura produttiva sia improvvisamente cambiata o che abbia dal nulla cominciato a produrre di più, non è pensabile per il semplice fatto che si tratta di variabili di medio-lungo periodo. Il fatto che la Germania passi da -35 miliardi euro circa nel 2000 a +42 miliardi euro circa nel 2002 (cioè da ampiamente negativo ad ampiamente positivo in due anni) non può essere giustificato da miglioramenti della tecnica o particolare euforia sui mercati internazionali, perché a quel punto anche paesi più forti come la Francia avrebbero dovuto almeno in parte beneficiarne. La risposta è invece fornita da un paper della Commissione Europea che recita: “la performance tedesca di grande aumento delle esportazioni non può spiegare di per sé il grande surplus della bilancia commerciale, perché le maggiori esportazioni avrebbero dovuto portare maggiori guadagni che almeno in parte sarebbero diventati maggiori importazioni” (come in Grecia, dove con l'entrata nell'Euro le esportazioni sono aumentate, ma anche le importazioni, senza perciò determinare un miglioramento delle partite correnti). Qual è stata la particolarità della Germania? Tale surplus è dovuto essenzialmente ad una debolezza della domanda, che è andata ad incidere negativamente sulle importazioni tedesche, mentre negli otto anni prima dell'entrata nell'Euro questa era la componente principale della sua crescita. La Germania è così diventato un Paese ampiamente legato alle esportazioni, più che alla domanda interna. Inoltre il settore privato e il settore industriale (non finanziario) sono diventati dei prestatori netti (cioè nel totale nazionale, questi due settori, prestavano più di quanto chiedessero a prestito), determinando gran parte del surplus delle partite correnti in questione. La Commissione Europea ha ritenuto inoltre che un tale aggiustamento nel settore industriale tedesco sia stato effettuato nei primi anni 2000 tramite un taglio degli investimenti ma soprattutto una moderazione salariale (cioè un abbassamento degli stipendi), la quale è stata molto più pronunciata che negli altri Paesi dell'Eurozona (infatti risulta che la domanda interna sia stata molto bassa, con bassi consumi, ovvero maggiori risparmi). Partendo da una posizione di questo tipo, quando c'è stato il boom dei commerci tra il 2004-2007, la Germania ha potuto beneficiare di maggiori esportazioni, come tutti, ma senza incorrere in un aumento delle importazioni e per di più consolidando le finanze pubbliche per via delle maggiori entrate derivanti dalle esportazioni (il settore pubblico tedesco partiva da una situazione di deficit, entrate minori delle uscite, già dai precedenti anni e solo nel 2007 è riuscito a ritornare in pareggio). Questo non significa peraltro mettere in discussione l’elevata qualità della struttura produttiva tedesca; bensì considerare che in Germania la maggiore competitività deriva soprattutto da fattori non correlati col prezzo dei loro prodotti. Viceversa in Italia il fattore prezzo è determinante, con un ampio grado di elasticità delle esportazioni rispetto al prezzo per cui la rigidità del cambio (che determina il prezzo da pagare da parte degli esportatori) influisce negativamente sull’export. Perciò, per rimanere nell’esempio, un tasso di cambio apprezzato incide molto negativamente sulla competitività dei prodotti italiani, mentre quasi non incide sugli esportatori tedeschi (che al contrario ci guadagnano in termini di maggiore entrate). Tutto ciò porta a ritenere che, con l’introduzione dell’euro la Germania abbia applicato una strategia di mercantilismo: si tratta di una politica economica in cui la potenza di una Nazione si afferma con la prevalenza del suo export rispetto all’import. E’ inoltre evidente che il mercantilismo tedesco è stato applicato soprattutto verso gli altri Paesi di Eurolandia, impossibilitati a svalutare il proprio cambio a seguito dell’introduzione della moneta unica.
I sette punti del “ciclo di Frenkel” descrivono con estrema accuratezza quanto verificatosi nel caso della dollarizzazione dell’Argentina, ma in essi sono facilmente riscontrabili anche le vicissitudini tra i Paesi Periferici di Eurolandia (Italia inclusa) e quelli forti (tipicamente la Germania). Come è stato già esaminato in precedenza, dalla creazione della moneta unica si riscontrano sia gli elementi positivi iniziali del ciclo (riduzione degli spread, aumento dei flussi di investimento, incremento del prodotto interno) per i Paesi Periferici che contribuiscono all’implementazione delle bolle, sia lo scoppio delle bolle stesse e l’impatto recessivo conseguente, aggravato dall’impossibilità di agire sulla leva del cambio (che è fisso) e dalla rigidità della politica fiscale (austerity). La domanda che è quindi lecito porsi è: a che punto del ciclo siamo arrivati? Non è difficile ritenere che numerosi Paesi dell’Eurozona (Grecia in primis) siano nella fase VI del “ciclo di Frenken”, e che quindi l’insostenibilità del cambio fisso stia per diventare palese, a fronte di un qualsivoglia attacco speculativo. Vi è un ulteriore elemento che rappresenta la condizione di divaricazione tra i Paesi dell’Eurozona, in termini di diminuzione della fiducia reciproca: si tratta dell’incremento dei saldi di Target 2. Per comprendere tale aspetto, in primo luogo è necessario comprendere di che cosa si tratta: Target 2 è un sistema di pagamenti interbancario per l'elaborazione in tempo reale dei bonifici transfrontalieri in tutta l’Unione Europea; ha sostituito il sistema Target (Trans-European Automated Real-Time Gross Settlement Express Transfer System) nel novembre 2007. Il sistema Target 2 serve a riequilibrare gli squilibri della bilancia dei pagamenti tra i Paesi aderenti all’Eurozona: a seguito dell’adozione della moneta unica non è più possibile ricorrere alle riserve di valuta estera per compensare il deficit di liquidità delle Banche Centrali e coprire il saldo con l'estero. Il sistema interviene così a compensare gli scambi internazionali attraverso l'attivazione di prestiti delle Banche Centrali Nazionali presso la Banca Centrale Europea. Le banche sono di norma costrette a riequilibrare i passivi e dovrebbero operare all'interno di una logica cooperativa con le altre banche europee transnazionali; queste, tuttavia, possono non nutrire fiducia verso istituti di un paese in deficit, preferendo conferire i propri capitali presso la Banca Centrale Nazionale, la quale può decidere di incrementare il proprio saldo positivo (tesaurizzandolo anziché investirlo) presso il sistema Target 2. Un incremento dei saldi Target 2 indica cioè una sclerotizzazione, se non un inceppamento del sistema del sistema interbancario europeo. Per comprendere appieno tale concetto teorico, è utile un esempio partico: se per un qualsiasi motivo (acquisto di un bene, flussi in uscita di capitali) delle somme si spostano dalla banca di un Paese in deficit (ad esempio la Spagna) verso una di un Paese in surplus (ad esempio la Germania), la banca spagnola – per bilanciare i propri conti – deve ricevere un finanziamento. In condizioni normali, il finanziamento proverrebbe dal circuito finanziario privato: in pratica i fondi arriverebbero da una qualche banca tedesca. Ma se le banche tedesche non si fidano delle banche spagnole? Avvengono due cose: (i) la banca spagnola, per bilanciare i conti, chiede un prestito al Banco de Espana, che a sua volta si fa finanziare dalla Banca Centrale Europea, incrementando il proprio saldo negativo Target 2 e (ii) la banca tedesca, per bilanciare i conti, eroga un finanziamento alla Bundesbank, la quale trasferisce l’ammontare alla Banca Centrale Europea, aumentando il proprio saldo positivo Target 2. Alla luce di quanto finora analizzato, osserviamo la figura sottostante, in cui sono indicati gli andamenti dei saldi Target 2 dei vari Paesi dell’Eurozona.
In essa si vede chiaramente che i saldi Target 2, dopo avere toccato una punta massima nel 2012 (nel pieno della crisi dello spread di Italia e Spagna) si sono ridimensionati; dal 2015 la situazione sta però nuovamente peggiorando con un andamento incrementale del saldo positivo tedesco ed un peggioramento dei saldi negativi italiano e spagnolo, a conferma di una situazione che evidenzia rischi crescenti nella tenuta di Eurolandia.
Gli elementi essenziali, secondo Stiglitz, per la sopravvivenza dell’Eurozona risultano agli occhi di tutti quantomeno di difficile implementazione nel quadro politico europeo attuale. Si tratta quindi di chiedersi: che cosa si potrebbe fare in alternativa? Lo stesso Stiglitz presenta l’altra via, che lui chiama di divorzio amichevole precisando che “a reasonably well-managed amicable divorce Greece would do far better than it is doing under the current programs imposed upon it by the Troika”. Già, ma come? Il premio Nobel americano in primo luogo presenta un elemento di differenza rispetto al passato, in grado di semplificare notevolmente ogni passaggio valutario: la predominanza della moneta elettronica sul vero e proprio circolante. Il caso greco continua a fornire un esempio utile: “With electronic money leaving the euro can, in principle be done smoothly, assuming there is a cooperation with other European autorithies. Upon a Grexit, the Greek-euro would istantly come into begin. It would be the money inside the Greek banking system. In effect, this money would be locked in but anybody could transfer the money in almost full use of his money”. Vi sarebbe poi il tema bancario che emergerebbe immediatamente, con il rischio di un crack dell’intero settore, in assenza dei finanziamenti operati dalla Banca Centrale Europea, ma tale problema verrebbe risolto dalla riattribuzione del potere di signoraggio alla Banca Centrale del Paese in uscita (nell’esempio, la National Bank of Greece) che potrebbe in tale modo fornire liquidità agli Istituti di credito del Paese. Vi sarebbe poi il tema del commercio estero, con la necessità di evitare i problemi già esaminati (eccesso di surplus e di deficit della bilancia commerciale), naturalmente facendo sì che la nuova moneta (chiamiamolo solo come esempio Greek-euro) venga accettato negli scambi internazionali. Per quanto riguarda il primo aspetto (l’equilibrio nel tempo della bilancia commerciale del Paese uscente) sarebbe la stessa fluttuazione della valuta (Greek-euro) a determinare il nuovo punto di equilibrio (apprezzandosi in caso di surplus che supera il deficit e deprezzandosi nel caso opposto). Per quanto riguarda l’accettabilità, da parte dei mercati, della nuova moneta (Greek-euro) come mezzo di pagamento c’è un’altra riforma che, se implementata, favorirebbe il processo di aggiustamento: essa è stata suggerita dal noto finanziere statunitense Warrent Buffet, è nota come “trade chits” o “Buffet chits” e viene ripresa dallo stesso Stiglitz. “In this proposal government would provide to any exporter a chit, a token (in this case, elettronically recorded), the number in proportion to the value of what was exported; to import a Greek-euro worth of goods, there would be a requirement to pay, in addition, a Greek-euro’s worth of chits or “trade-tokens”. Ther would be a free market in chits, so the demand and supply of chits would be equal; and by equating the demand and supply of chits, one would automatically balance the current account”. Si tratta di un sistema rivoluzionario, se non nel metodo (lo scambio di gettoni elettronici che accompagnino l’import-export) bensì nel merito: significa cioè mettere definitivamente sotto controllo, da un punto di vista governativo, il deficit (ed il surplus) delle partite correnti (in assenza di gettoni elettronici, la transazione non può concludersi) come detto esplicitamente da Stiglitz (With the system of trading chits, the trade deficit can be controlled, enhancing overall stability). Il problema principale di un changeover valutario è la ridefinizione del debito a quel momento esistente, in quanto la nuova valuta (Greek-euro) sarebbe destinata a deprezzarsi (per le ragioni già indicate nei punti precedenti della trattazione) nei confronti dell’euro. Si tratta di un punto cruciale esaminato da tutti gli esperti che hanno trattato l’argomento. Il professor Bagnai, ne “Il Tramonto dell’euro” dedica molti paragrafi a tale specifico tema. Egli distingue in primo luogo il debito tra pubblico e privato. Ad ulteriore dettaglio separa il debito pubblico tra quello detenuto a livello nazionale (quindi da soggetti interni) e quello estero (detenuto da operatori non appartenenti al Paese in uscita). Bagnai è tanto chiaro quanto categorico: il debito pubblico andrebbe ridenominato tutto, cioè dovrebbe essere convertito nella nuova valuta (Greek-euro) ciò in quanto l’espressione del debito in una valuta estera (a quel punto l’euro) destinata in un primo tempo ad apprezzarsi verso la nuova valute (Greek-euro) potrebbe vanificare i vantaggi dell’uscita (derivanti dagli effetti di una svalutazione). Si tratterebbe di un evento catalogato come “default statale”? Per gli operatori esteri certamente sì, ma per gli agenti interni l’effetto negativo verrebbe mitigato dagli effetti positivi del changeover. Il punto vero, estremamente delicato e – inutile negarlo – denso di insidie riguarda il debito privato, cioè quello delle famiglie ma soprattutto delle imprese. In tali casi, soprattutto per le imprese, la ridenominazione non potrebbe essere implementata, con il ischio di assistere ad una serie di default aziendali, causati dal fardello del debito in valuta estera (l’euro) di difficile sostenibilità. Ciò avrebbe un effetto negativo a cascata sul sistema creditizio nazionale (aumento delle sofferenze) con alto rischio di default bancari. Bagnai affronta tale tema nel dettaglio, distinguendo la casistica tra (i) grandi imprese, (ii) piccole e medie imprese e (iii) istituti di credito. In ognuno di tali tra casi, pur con gradazioni ed intensità differenti, si tratterebbe di porre in atto dei sostegni pubblici temporanei più o meno rilevanti: dalla definizione di prestiti ponte, alla predisposizione di linee di credito agevolato fino alla vera e propria nazionalizzazione degli enti più colpiti. Quanto indicato relativamente al problema del debito, aiuta a comprendere l’opinione di Stiglitz, il quale indica – in caso di divorzio – come strada maestra l’uscita dei Paesi forti (Germani, Olanda, Finlandia) perché più semplice e meno dolorosa. In tale caso l’euro rimarrebbe la valuta dei Paesi Periferici (più deboli) e si verrebbe a creare un nuovo euro del Nord, destinato ad apprezzarsi nei confronti dell’euro, risolvendo a monte molti dei problemi sopra dettagliati. Stiglitz infatti afferma: “The departure of some of the northern countries would allow an adjustment of the exchange rate of the remainder relative to that of the northern countries. That adjustment would help restore current account balance [..] the increased strenght of the economies in southern Europe would enable them to service their debts, and even pay down some of the debt. With the departure of the northern countries, the currency in use by the southern countries would still be the euro. Because the debts are owed in euros, and the countries in the south had retained it, there wouldn’t be an increase in leverage for them”.
Il progetto di Unione Europea è nato per il maggiore benessere dei popoli, per evitare il ripetersi dei terribili eventi bellici del secolo scorso, per favorire la crescita economica, lo sviluppo e per dare un futuro migliore alle nuove generazioni. La crisi finanziaria ed economica ha rotto questo sogno: l’Europa si trova in condizioni di stagnazione economica, con problemi crescenti di impoverimento, aumento del debito e scarsa occupazione, soprattutto giovanile. Un numero sempre maggiore di osservatori economici si sta allineando ad una teoria sostenuta da anni da alcuni economisti: vi è un mal funzionamento nel meccanismo di governance europea. Non si tratta di un dettaglio, bensì del fatto che l’introduzione di una moneta unica, l’euro, in assenza dell’implementazione di una serie di riforme economiche, fiscali, sociali ed istituzionali non è sostenibile. Il motivo è da ricondurre al fatto che l’adozione di una moneta unica comporta la perdita della libera oscillazione del cambio, naturale valvola di sfogo degli squilibri macroeconomici tra i diversi Paesi, che deve essere compensata da una serie di misure, pena il peggioramento economico continuo e progressivo e la divaricazione crescente tra i Paesi forti e quelli deboli. Si scopre quindi che l’euro non può essere un progetto esclusivamente monetario, bensì necessariamente politico istituzionale. In assenza della volontà – da parte dell’attuale leadership europea – ad implementare il necessario cambiamento, l’adozione dell’euro non può essere ritenuta un elemento neutrale, bensì dannoso per numerosi Paesi, rendendo di fatto l’uscita dalla moneta unica una scelta obbligata per salvare l’Europa stessa da rischi più gravi, quali tensioni sociali che possono sconfinare anche in conflitti commerciali, economici e militari. L’eventuale tramonto della moneta unica così com’è stata dalla sua costituzione è quindi un evento non più così remoto, bensì da valutare con attenzione per i suoi impatti economici e finanziari. Il premio Nobel per l’economia Stiglitz, nel suo testo di recente pubblicazione “The euro and its threats to the future of Europe” sintetizza tale pensiero: “The euro can and should be saved, but not at any cost. Not at the cost of the recessions and depressions that have afflicted the Eurozone, the high unemployment, the ruined lives, the destroyed aspirations. It doesn’t have to be this way. One can create a Eurozone that works, that promotes prosperity and advances the cause of European integration. The halfway house in which Europe finds itself is unsustainable: there either has to be “more Europe” or “less”, there has to be either more economic and political integration or a dissolution of the eurozone in its current form”.Il monito è forte è chiaro: i cittadini farebbero bene a non sottovalutarlo.
Gabriele Pinosa
economista
consulente aziendale e finanziario